SchiaffiLife – Vita e opere di Roxy in the Box
Regia: Massimo Andrei
Artisti: Roxy in the Box
Nazione: Italia
Anno: 2008
Produzione: Mater
Durata: 17′
Colori acidi accesi, colori artificiali che parlano del consumismo e del malessere contemporaneo, del cioccolato, dei detersivi, della frutta e dei temi importanti del nostro tempo. Questi, in sintesi, gli elementi centrali del lavoro di Roxy in the Box, artista dei nostri giorni. Un mix tra i video realizzati da Roxy e il video della sua stessa storia nel tentativo di fondere questa immagine colorata nelle immagini da lei dipinte: questo è il modo che Massimo Andrei ha scelto di utilizzare nel rappresentare Roxy, non attraverso le sue opere, ma nelle sue opere. Non ci sono messaggi criptici o concettualismi complessi, ma piuttosto narrazioni disadorne e, spesso, confessioni che toccano temi e problemi riguardanti Napoli, città dove l’artista vive e lavora.
Il film non perde mai il contatto con le due caratteristiche che accomunano il pittore e il regista: giocosità e ironia. Forse perché bisogna cogliere anzichè proteggersi dagli input esterni, dai colpi opportuni della vita, dagli stimoli e, quando necessario, dagli “schiaffi”… Schiaffilife che ovviamente si riferisce a una vita di schiaffi o umiliazioni, ma non in senso metaforico o addirittura esistenziale. Nel film, gli schiaffi sono espressi come azione, usati in risposta o usati come punteggiatura.
MASSIMO ANDREI FILMA ROXY NEL BOX by Anita Pepe
«Sono stata schiaffeggiata ininterrottamente dalle tre del pomeriggio alle nove di sera. E ognuno era reale, sia chiaro!!», ha affermato Roxy in the Box, ci tiene a chiarire questo punto. Il 13° Festival Artecinema si chiuderà con “Schiaffilife”, un documentario girato da Massimo Andrei sulla sua vita artistica e il suo amore per l’arte. In effetti, di insidie e di schiaffi in faccia ne ha avuti i suoi, e forse ancora di più alla luce della città “difficile” (Napoli) e del “quartiere estremo” dove, dopo un’adolescenza nomade, Roxy ha scelto di vivere.
Questo minifilm di 17 minuti nasce dal «silenzio che viene dal profondo dell’arte visiva», ma è anche un’opera polifonica: la voce fuori scena che conduce l’intervista a cuore aperto e senza esclusione di colpi è quella del regista: le altre voci sono quelle di Julia Draganovic (direttore del PAN) e Gennaro De Masco, cantante-interprete e complice di tanti altri progetti tra cui “T’aggia scassà ‘o sanghe” che, nonostante tutti gli orpelli tipici di uno di quei fastidiosi tormentoni estivi, è in realtà una incisiva riflessione sulla violenza “globale” che affligge l’era moderna.
I lavori di Roxy sull’“individuo” sono così: trasformisti, sgargianti, dissacratori eppure permeati di dolore e solitudine perché – come spiega l’artista – «una volta tolti i colori dai miei quadri, ciò che rimane è nero». Erano molte le sfaccettature di questa artista che Massimo Andrei ha voluto e saputo cogliere ed è stato aiutato da questa rara forma di empatia che condivide con l’artista. Tutto è iniziato con un incontro virtuale quando ha visto uno dei suoi dipinti sullo schermo di un computer. … «Il dipinto – ricorda il regista – era “Il basilico di Stephanie” e la mia curiosità fu destata dai colori molto accesi e dall’espressione della protagonista. Più di ogni altra cosa ho sentito e compreso l’ironia del concetto assemblato – reso pittorico… che, in effetti, è qualcosa in cui posso facilmente identificarmi: l’espressione di un concetto sociale, universale attraverso un momento o una figura comune. E poi mi ha fatto ridere, il che è fondamentale! Molte delle opere di Roxy sono amaramente comiche».
“Amore a prima vista”?
«Non proprio, ma ho fatto una scoperta e l’ho abbracciata. Non mi sono lasciato sopraffare, ma mi era chiaro che condividevamo visioni simili. Poi ci siamo incontrati e ho saputo che si era identificata con lo stile e l’umorismo agrodolce di “Mater Natura”, un film che avevo distribuito da poco. Una volta cominciato a parlare ho sentito ancora una volta il desiderio di minimizzare ma allo stesso tempo rivelare lo stato d’animo di chi vive in questa zona. La profondità di certe opere, caratterizzate da colori forti e uno stile grafico, quasi cartoonesco, eredità di quasi tutti i media contemporanei, o certi tagli cinematografici, certe figure sembravano quasi uscite dalla televisione. Simboli, icone, personaggi che vanno da Hitler ai Puffi o da San Sebastiano a Spider Man… Io sono quello che sono, cioè una fusione».
Hai mai girato altri documentari su artisti contemporanei?
«No, questa era la prima volta. Avevo cominciato da poco a lavorare con il documentario quando ho prodotto Mater, nato durante le guerre di camorra e sbocciato nel periodo in cui la città era sommersa dai rifiuti. Mi sono sempre occupato di tematiche sociali. Quando ero all’università, girai un videodocumento su Franco Carmelo Greco, il professore che mi ha avviato a questa professione e che è stato il principale promotore di diverse iniziative culturali a Napoli, tra cui la cattedra universitaria di Storia del Teatro all’Università “Federico II”. Più che un artista lo definirei una miniera d’arte».
Qual è il taglio di questo “cortometraggio”?
«Non ho posto l’accento sull’incontro tra due artisti, né sul mio stile di regista: questo sarebbe venuto automaticamente, perché io e Roxy siamo in sintonia. Più di ogni altra cosa quello che volevo emergesse era Roxy che ha tanto da dire oltre a quello che rivela negli acrilici e sulla tela. Non mi piace l’idea di farla parlare e di mostrare le opere a tutto schermo, come generalmente si fa quando si ha a che fare con pittori, fotografi, fotografi e altri artisti… un’inquadratura dell’opera e un’altra dell’artista che parla. No: volevo lei e le sue opere insieme, Roxy ridipinta da me, con i colori che piacciono a entrambi, sopra le sue opere, nelle sue opere. Ecco perché quando la scena diventa più confessionale, Roxy viene inquadrata completamente immersa nelle sue opere. La mia intenzione era quella di ricollocare lei da dove si era staccata, dal suo mondo immaginario che ha denunciato e dipinto, Roxy che è personalmente e iconograficamente la figlia/madre delle sue figure ».
Perché il titolo “Schiaffilife”?
«Ha parlato di vicende dolorose vissute in prima persona e che fanno parte della società in cui entrambi viviamo… e poi sembrava che tutto il suo percorso fosse fatto di schiaffi, o meglio, di una vita di schiaffi… “Schiaffilife”. Ma la mia intenzione per il video non era fare metafore ma usare schiaffi veri e farlo personalmente. È stato un vero e proprio esercizio di esorcismo diventato comico».
Senti un’affinità tra il lavoro di Roxy in The Box e il tuo?
«Roxy utilizza simboli ed elementi reali della vita quotidiana, della cronaca o del consumismo moderno (anche il documentario ha una data di scadenza: 2013) per far riflettere o provocare… Nel teatro, nelle favole e nel cinema mi esprimo anche in in questo modo. Forse è un taglio più colto, ma è comunque pop, ma pop intendeva anche un’abbreviazione della parola popolare… cioè comprensibile a tutti, anche a chi non ha una cultura profondamente radicata che altrimenti avrebbe difficoltà a decodificarli. messaggi».
Che impatto pensi che avrà questo “cortometraggio” in altre città italiane o all’estero?
«Secondo me avrà un grande impatto, o forse è solo quello che vorrei che accadesse. Credo però che avrà un impatto… perché è attuale e immediato; perché è sincero e non romanzato; e, soprattutto, perché è divertente, il che è sempre un fattore importante».
Hai qualche progetto di lavorare insieme a Roxy in futuro?
«Indubbiamente: le sono molto legato, anche se non vorrei che tutto questo le montasse la testa».
(Roma, 19 ottobre 2008).